La mostra, inserita tra le manifestazioni dei festeggiamenti per i cinquant'anni dell'apertura al pubblico del museo di Capodimonte, è la prima dedicata all'artista di origine napoletana e consente di approfondire la conoscenza della sua opera, in particolare relativamente ad alcuni generi più frequentemente trattati. Pittore, incisore, poeta, polemista, attore, commediografo, figura tra le più affascinanti del Seicento europeo, Salvator Rosa nasce a Napoli nel 1615 ed ha la prima formazione in un ambiente ancora dominato dal naturalismo di De Ribera, trasferendosi poi a Roma. Nel 1640 si sposta a Firenze, città dagli accentuati interessi intellettuali e scientifici, ed è la svolta fondamentale nel suo percorso creativo: i lavori testimoniano una febbrile ansia di conoscenza e una straordinaria versatilità. Nel 1649 torna a Roma, consapevole che la consacrazione definitiva per un vero artista di successo è possibile solo nella città papale. Numerose committenze, rapporti con mercanti, partecipazioni ad esposizioni pubbliche ne determinano la piena affermazione, sebbene sul piano esistenziale si accentuano insoddisfazioni ed irrequietezze con punte di accentuata tensione drammatica. In seguito, con una salute resa precaria dall'abbandono della vista e in uno stato di profondo scetticismo, si volge all'esplorazione delle relazioni più intime e segrete dell'animo umano, producendo immagini allucinate e visionarie, destinate dell'Ottocento a dar vita al mito preromantico di Salvator Rosa artista solitario e ribelle.
La mostra inizia nelle antiche cisterne della Reggia, una modernissima sala sotterranea dedicata a Raffaello Causa, soprintendente negli anni Sessanta, ed è allestita per nuclei tematici, proseguendo poi nelle sale da 91 a 96 tra l'allestimento permanente per un naturale dialogo con i maestri del Seicento meridionale. Rosa non era mai appagato, cercando sempre nuove sperimentazioni; la grande dimensione delle tele dell'ultima produzione è giustificata dai problemi di vista.
In apertura il suo autoritratto accigliato sullo sfondo di un cielo rabbuiato con quel motto che quasi impaurisce: “ aut tace, aut loquere meliora silentio” (taci o parla se hai da dire cose migliori del silenzio). I ritratti rivelano la sua complessa personalità artistica e l'insofferenza verso le condizioni imposte dal mercato e dai committenti. Il “Ritratto di Lucrezia come Poesia” da Hartoford, Connecticut, ha una luce splendida, il “Ritratto della moglie Lucrezia” da Palazzo Barberini ha occhi intensissimi e mi ha ricordato la Meryl Streep de La donna del tenente francese”; invece il “Ritratto di Giovan Battista Ricciardi” sarebbe un autoritratto nelle vesti di filosofo in meditazione sulla caducità della vita dedicato all'amico fiorentino.
Nel periodo fiorentino Salvator Rosa entra in contatto con le tendenze del neostoicismo, facendo proprie le teorie dei cinici greci e romani e il loro disprezzo per le ricchezze e gli aspetti più futili e caduchi della vita: ricorrono nelle opere di questi anni e degli anni anche successivi temi filosofici e moraleggianti, prediligendo la meditazione solitaria e la riflessione sulla fugacità della vita, come il cupo ”Allegoria della filosofia” o i vari filosofi in meditazione e la teatralissima morte di Empedocle che si getta nel cratere del vulcano.
Anche nei soggetti storici il pittore predilige i temi che esaltano le virtù dell'individuo e l'atto di eroismo di chi, nel bene e nel male, sceglie di star fuori dalle logiche del potere. Egli però era ambizioso e voleva non essere considerato solo paesaggista (questi, meno significativi, sono esposti al secondo piano, dove si sfila davanti a Luca Giordano e Mattia Preti) o battaglista, quanto piuttosto narratore di soggetti rari ed eruditi per sfoggiare le proprie conoscenze di letteratura antica e di iconologia: impressionante il crudo “Prometeo”, il languido “Arione” è soffuso di luce nordica, movimentato è “Pan e Siringa”, numerose sono opere dalle metamorfosi di Ovidio e da Virgilio (“Il sogno di Enea” ripercorre esattamente la descrizione del poeta).
I soggetti tratti dalle sacre scritture vengono scelti dal pittore liberamente e con atteggiamento moderno, indagando la forza dell'uomo, il coraggio che consente di superare prove o di scegliere condizioni di vita difficili, sopportando isolamento ed emarginazione: i santi eroici si pongono come simboli di esistenze coraggiose. Nel “Martirio di San Bartolomeo” (1639) è vicino al naturalismo di Ribera; il “Sant'Antonio da Padova predica ai pesci” gli consente di esprimersi sul paesaggio; la “Resurrezione di Lazzaro” è vicina a Rembrandt, mentre “Le tentazioni di Sant'Antonio Abate” risente dell'atmosfera dominata dalla stregoneria ed è pervaso da un clima di visionarietà ed inquietudine (particolarissimi i dipinti con le stregonerie). Durante la visita mi sono intenerito con un bambino incantato dagli angeli che salgono sulla scala nel “Sogno di Giacobbe”.
Napoli, Museo di Capodimonte, fino al 29 giugno 2008, aperta tutti i giorni (tranne il mercoledì) dalle 10 alle 18, venerdì, sabato e domenica chiusura posticipata alle 19,30, ingresso euro 12,00 comprensivo del museo, catalogo Electa Napoli, infoline 848800288, sito internet www.museo-capodimonte.it
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